STABILIZZARE E FIDELIZZARE I LAVORATORI

 

Per migliorarne la motivazione e l’efficienza

 

La fidelizzazione delle risorse è un tema sempre più sentito dalle aziende. Il turnover, infatti, è un fattore di ostacolo alla produttività e provoca una dispersione di know how, oltre a essere spesso causa dell’appropriazione da parte dei competitor. Per ottenere questo risultato l’ordinamento giuslavoristico prevede diversi istituti che possono essere adottati allo scopo di fidelizzare i lavoratori e migliorarne la motivazione e l’efficienza.

 

Tra gli strumenti che il datore di lavoro può adottare per fidelizzare i propri lavoratori esistono varie soluzioni che, seppur diverse, hanno analogie da tenere presenti per comprendere quali possano essere i limiti e i risultati prevedibili. Alcuni sono già ampiamente utilizzati e rientrano nelle prassi diffuse in azienda, mentre altre possono essere dei validi suggerimenti. Vediamo i principali.

 

Patto di stabilità

Il patto di stabilità o clausola di durata minima garantita costituisce una limitazione della libertà contrattuale prevista, in genere, quando la formazione del dipendente rappresenta un investimento notevole per il datore di lavoro, oppure quando è necessario tutelare la presenza in azienda di professionalità specializzate, strategiche o di difficile reperimento sul mercato.

Tale clausola, non disciplinata da alcuna normativa ad hoc, può essere stipulata:

• a favore del dipendente: il datore di lavoro si impegna a non licenziarlo entro il tempo concordato salvo il caso di gravi inadempimenti;

• a favore del datore di lavoro, per cui il dipendente si impegna a non dimettersi per il tempo concordato;

• a favore di entrambi, per cui il datore non può procedere al licenziamento e il dipendente non può dimettersi per il periodo stabilito.

E’ il caso di accennare che il patto di stabilità non è compatibile con i contratti a tempo determinato poiché, in tali casi, il rapporto risulta già limitato a livello temporale. Trattandosi di un’importante limitazione all’autonomia contrattuale, è richiesta la forma scritta e un adeguato corrispettivo in favore del lavoratore.

Altra questione di rilievo è legata alla durata del patto: il quantum non è standardizzabile, dovendosi tenere conto di numerosi fattori caratterizzanti il rapporto (il particolare ruolo svolto dal lavoratore, un’eventuale rilevante spesa sostenuta per la sua formazione, ecc). In ogni caso, la durata deve essere giustificata da elementi oggettivi.

Le conseguenze del recesso dal patto sono diverse a seconda di chi vi dia causa:

• se recede il datore di lavoro (non per giusta causa), il risarcimento da corrispondere al lavoratore deve essere proporzionato alle retribuzioni non ricevute dalla data del licenziamento alla data di scadenza dell’impegno alla stabilità;

• se recede il lavoratore (non per giusta causa), in genere è lo stesso contratto di lavoro o l’atto successivo con cui si fissa il patto di stabilità, che prevede la misura della penale dovuta dal lavoratore inadempiente a favore del datore di lavoro.

A tutto questo va aggiunto anche il problema legato al preavviso di recesso: l’esistenza di un patto di stabilità, infatti, non esclude tale onere sul recedente che, in caso di recesso immediato, è tenuto a corrispondere anche l’indennità di mancato preavviso.

In conclusione, è evidente come la clausola di durata minima garantita rientri tra le tecniche di retention individuali che il datore di lavoro può mettere in atto per assicurarsi professionalità preziose per l’azienda o per tutelare gli investimenti in formazione effettuati a favore dei lavoratori.

 

Patto di non concorrenza

Il patto di non concorrenza è lo strumento giuridico regolato dall’art. 2125 c.c. a disposizione dell’azienda per evitare che l’ex dipendente divulghi le informazioni apprese durante il rapporto di lavoro o svolga attività concorrenziale, una volta cessato il rapporto di lavoro.

In pratica, il datore di lavoro stipula un contratto con il dipendente, nel quale si impegna a versare al lavoratore una somma di denaro in cambio dell’impegno di quest’ultimo a non svolgere attività concorrenziale al termine del loro rapporto.

Perché si consideri valido il patto di non concorrenza l’importo corrisposto al dipendente non può essere inferiore al 30% della retribuzione annua.

Una clausola molto importante è la seguente: il compenso deve essere determinato o determinabile. Come si paga l’indennità al dipendente? In generale, tramite le due seguenti modalità:

- una tantum al momento della termine del rapporto di lavoro: la cifra corrisposta è considerata, in termini di tassazione, alla stregua del trattamento di fine rapporto e perciò non è soggetta agli obblighi contributivi;

- con percentuale fissa o crescente in relazione alla retribuzione del lavoratore (di natura contributiva: concorre a formare la base per il calcolo del Tfr).

Il dovere di fedeltà del prestatore di lavoro gli impone l’osservanza di due obblighi di natura negativa:

• divieto di concorrenza;

• obbligo di riservatezza;

la cui violazione comporta responsabilità disciplinare (art. 2106 c.c.), e l’obbligo al risarcimento dei danni subiti dal datore di lavoro.  Oltre alla responsabilità civile si affianca la responsabilità penale per la protezione del segreto professionale e aziendale (artt. 621-623 c.p.).

Perciò, nel caso in cui il prestatore di lavoro violi il patto di non concorrenza, il datore di lavoro potrà:

-         chiedere la restituzione del corrispettivo pagato e il risarcimento dei danni subiti per l’attività concorrenziale dell’ex dipendente;

-         avviare una procedura d’urgenza ai sensi dell’art. 700 C.p.c. per imporre al lavoratore la cessazione dell’attività concorrenziale.

 

Prolungamento del periodo di preavviso

Con tale pattuizione si mira a prolungare il periodo di preavviso necessario per cessare tramite dimissioni il rapporto di lavoro (normalmente a tempo indeterminato), ai sensi dell’art. 2118 c.c.

Tale clausola è a tutti gli effetti una delle molte sfumature dell’autonomia negoziale privata che consente di adattare il rapporto di lavoro alle particolari esigenze delle parti.

Ovviamente, muovendoci nel campo del diritto del lavoro, nel tempo si è pervenuti, con una regolazione tipicamente praeter legem, a circoscrivere gli effetti e le limitazioni della clausola in oggetto, potenzialmente pericolosa per il lavoratore limitato nell'accesso al mercato del lavoro (anche se per sua volontà, posto che si è in presenza di un accordo).

In particolare, la giurisprudenza, che l’ha ritenuta in linea di massima lecita e non vessatoria, nel tempo ha comunque consegnato una serie di indicazioni e condizioni da considerare al fine di non cadere nell’ipotesi di illegittimità, stante il teorico sacrificio del lavoratore.

Generalmente, si è ritenuto che la pattuizione di un periodo di preavviso più lungo di quello stabilito dalla contrattazione collettiva fosse lecita esclusivamente laddove consentita espressamente da quest’ultima. D’altra parte, in un momento successivo si è ritenuto possibile addivenire a un accordo in tal senso anche in assenza di espressa previsione del contratto collettivo, a patto che la clausola preveda una controprestazione per il sacrificio del prestatore di lavoro.

In tal modo, pur in assenza di previsione espressa del contratto collettivo, si realizzerebbero le condizioni previste dall’art. 2077 c.c. che permettono di derogare, ma solo in melius, alle prescrizioni date dalla contrattazione collettiva.

In altre parole, il “peso” della controprestazione prevista per il lavoratore risulta determinante al fine di consegnare legittimità alla clausola ed è pertanto ovvio che tale controprestazione debba essere non solo aggiuntiva rispetto ai minimi retributivi previsti, ma certamente significativa (non simbolica) e soprattutto correlata e proporzionata al prolungamento desiderato, che la dottrina limita al massimo a 2 anni, in analogia con il patto di non concorrenza.

 

In aggiunta, pare opportuno affermare che, in considerazione degli obiettivi prefissati (la fidelizzazione), si ritiene appropriato apporre una penale nella clausola per scoraggiare l’inadempienza.

 

Temi motivazionali

E’ opportuno approfondire anche il tema della motivazione, intesa come l’insieme dei motivi che ci spingono ad agire e che sono influenzati da processi cognitivi ed emotivi. Le teorie sulla motivazione, infatti, aiutano a comprendere che i soggetti agiscono sulla base dei bisogni e delle esigenze che intendono soddisfare; agendo su di essi, è quindi possibile aumentare o influenzare il grado di motivazione dei singoli.

I fattori motivanti, agendo sulle motivazioni intrinseche, ossia quelle legate al piacere nello svolgere un’azione o nel valore in sé, possono influenzare la motivazione spingendo i lavoratori a una maggiore efficienza e soddisfazione.

Il rischio consiste nell’intervenire sul contesto (procedure organizzative, obblighi contrattuali, strumenti di lavoro, relazioni interpersonali, ecc.) anziché sul contenuto (il riconoscimento dei risultati raggiunti, le possibilità di promozione, l’avanzamento professionale, ecc.).

Le analisi sulla motivazione suggeriscono ulteriori riflessioni che aiutano ad orientare le scelte di chi riveste ruoli apicali nelle aziende. Queste riflessioni riguardano la valutazione delle differenze nei bisogni dei lavoratori, l’adozione di obiettivi sfidanti, l’equità e la partecipazione. Occorre che il datore di lavoro svolga una puntuale analisi dei bisogni dei propri collaboratori prima di prendere una decisione. Viviamo in contesti lavorativi in cui le esigenze non sono mai le stesse tra un soggetto e l’altro: necessità di coniugare i tempi di vita e di lavoro, bisogni prettamente economici, prospettive di carriera chiare e restituzioni (feedback) costanti sulla loro realizzazione, ecc.

Conoscere i bisogni dei propri collaboratori significa poter elaborare soluzioni che agiscono in modo personalizzato, aumentando il grado di efficienza dell’intervento adottato.

Gli studi legati alle cosiddette teorie del processo, cioè le teorie che indagano le modalità di formazione della motivazione, hanno inoltre dimostrato che porre obiettivi sfidanti, ovvero di difficile (ma non impossibile) realizzazione, stimola le persone a fare meglio e ad avere migliori risultati di efficienza. La chiarezza e la specificità di questi obbiettivi nonché la fase di valutazione, con restituzione (feedback) al lavoratore, rendono ancora più motivanti tali soluzioni.

Altri aspetti sui quali è possibile agire per influenzare la motivazione dei collaboratori sono legati alla cosiddetta “giustizia organizzativa”, ossia sulla percezione di quanto si venga trattati in modo equo e giusto nel contesto lavorativo.

Implementare la partecipazione dei lavoratori ai processi decisionali dando loro la possibilità di offrire il proprio punto di vista prima che le decisioni siano assunte, condividere le informazioni affinché siano ben informati e dare la possibilità di incidere realmente ed efficacemente nel processo decisionale, contribuisce ad aumentare la percezione di equità e di rispetto delle proprie esigenze e diminuisce l’impressione che vi siano disparità di trattamento o scarso interesse.

Conoscere i propri collaboratori, agire sui giusti fattori e non accontentarsi di soluzioni e strumenti rigidi rappresentano gli ingredienti essenziali per chi lavora nel presente ma ha lo sguardo rivolto al futuro.

 

Salute e benessere

Se si chiede ai lavoratori se apprezzano i benefit, la risposta, in generale, è sì. Se però, poi, andiamo a vedere l’indice di gradimento, questo sale a seconda che i beni e i servizi offerti rispondano ai loro bisogni, dove c’è sempre più attenzione a due fattori in particolare: la salute e, in una visione più ampia, il benessere. Questo emerge anche dai contratti collettivi nazionali di lavoro dove, nei rinnovi, le parti stanno puntando molto sul rafforzamento dei fondi sanitari e delle coperture e sull’iscrizione generalizzata dei lavoratori.

Per questo motivo, i lavoratori che saranno soddisfatti dell’offerta di soluzioni e servizi a supporto della salute e del benessere generale, proposti dal proprio datore di lavoro, saranno maggiormente ingaggiati, creando con la propria azienda un solido legame. I dati di uno studio mostrano infatti che oltre 3 dipendenti su 4 (77%) che hanno accesso a un piano di benefit aziendale ricco e strutturato dicono che non lasceranno la propria azienda. Un dato in aumento, visto che in un anno è passato dal 49%, il dato 2022, al 77%, il dato di oggi.

Dopo la pandemia, il tema dei servizi alla salute offerti dalle aziende ha assunto importanza sempre maggiore, essendo strettamente correlato al grado di ingaggio nell’ambito dell’organizzazione. In altri termini, un lavoratore che non si sente “protetto” dall’azienda rispetto alla sua salute, fisica e mentale, proverà minore coinvolgimento e sarà meno produttivo. Uno studio evidenziava qualche mese fa che un lavoratore su tre sarebbe disposto a rinunciare a un aumento salariale per una maggiore copertura sanitaria per sé e per i propri familiari. Sempre la medesima analisi mostra come, a livello globale, l’88% delle aziende dichiara di abbracciare una cultura del benessere e dell’attenzione verso i dipendenti.

In questo contesto, le aziende che sapranno pianificare strategicamente la propria offerta di benefit legati alla salute vinceranno la sfida dei talenti, risultando più attrattive per i lavoratori in entrata e anche per quelli considerati fondamentali nell’ambito dell’organizzazione esistente.

 

 

06/06/2023

 

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